Ventitré anni fa, il 13 settembre del 1993 da Washington l’euforia contagia il mondo: il leader palestinese Arafat e quello israeliano Yitzhak Rabin firmano gli accordi di Oslo, il primo passo verso una soluzione del conflitto israelo -palestinese, che oppone i due popoli dal 1948.
Gli accordi prevedono la creazione di un’autorità palestinese, entità provvisoria che dovrebbe sparire nel 1999 per lasciare spazio a uno stato indipendete.
Nel 1994, Yasser Arafat rientra in Cisgiordania dopo 27 anni di esilio, sarà il primo presidente dell’Autorità palestinese a essere eletto nel 1996.
Una seconda parte dell’accordo, siglato nel 1995, suddivide la Cisgiordania in tre zone: una prima controllata dai palestinesi, una seconda sotto il controllo condiviso e una terza che prevede il 60% del territorio sotto l’esercito israeliano che passerà sotto l’autorità palestinese in un secondo tempo.
In un terzo tempo verranno affrontati i problemi più spinosi, come i confini tra i due stati, lo status ultimo di Gerusalemme e le colonie israeliane in Cisgiordania, ultimo, ma non meno problematico, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi della guerra del 1948.
Nel novembre del 1995, l’assassinio di Rabin, sferza un colpo basso al processo di Oslo.
Shimon Peres assicura l’interim, ma nell’elezioni dell’anno sucessivo è sconfitto da Benjamin Netanyahu, che incarna la feroce opposizione al processo di Oslo della destra israeliana.
Nel 2000 i negoziati di Camp David per venir a capo dei dossier più spinosi falliscono.
È la fine del processo di Oslo, secondo molti analisti.
Lo stato palestinese, che doveva vedere la luce in quel frangente, abortisce. I palestinesi, esasperati da un’attesa che dura da più di 50 anni danno il via a una seconda Intifada, chiamata Intifada di Al Acqsa.
Gli israeliani reagiscono costruendo nuove colonie in Cisgiordania e riprendendo le armi a più riprese nella Striscia di Gaza.
A oltre di 20 anni dalla firma, sono comunque e ancora gli accordi di Oslo a regolare le relazioni tra i due campi.
Gli accordi prevedono la creazione di un’autorità palestinese, entità provvisoria che dovrebbe sparire nel 1999 per lasciare spazio a uno stato indipendete.
Nel 1994, Yasser Arafat rientra in Cisgiordania dopo 27 anni di esilio, sarà il primo presidente dell’Autorità palestinese a essere eletto nel 1996.
Una seconda parte dell’accordo, siglato nel 1995, suddivide la Cisgiordania in tre zone: una prima controllata dai palestinesi, una seconda sotto il controllo condiviso e una terza che prevede il 60% del territorio sotto l’esercito israeliano che passerà sotto l’autorità palestinese in un secondo tempo.
In un terzo tempo verranno affrontati i problemi più spinosi, come i confini tra i due stati, lo status ultimo di Gerusalemme e le colonie israeliane in Cisgiordania, ultimo, ma non meno problematico, il diritto al ritorno dei profughi palestinesi della guerra del 1948.
Nel novembre del 1995, l’assassinio di Rabin, sferza un colpo basso al processo di Oslo.
Shimon Peres assicura l’interim, ma nell’elezioni dell’anno sucessivo è sconfitto da Benjamin Netanyahu, che incarna la feroce opposizione al processo di Oslo della destra israeliana.
Nel 2000 i negoziati di Camp David per venir a capo dei dossier più spinosi falliscono.
È la fine del processo di Oslo, secondo molti analisti.
Lo stato palestinese, che doveva vedere la luce in quel frangente, abortisce. I palestinesi, esasperati da un’attesa che dura da più di 50 anni danno il via a una seconda Intifada, chiamata Intifada di Al Acqsa.
Gli israeliani reagiscono costruendo nuove colonie in Cisgiordania e riprendendo le armi a più riprese nella Striscia di Gaza.
A oltre di 20 anni dalla firma, sono comunque e ancora gli accordi di Oslo a regolare le relazioni tra i due campi.
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