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Una passeggiata al parco, una lezione di ceramica o la partecipazione a un gruppo di lettura. Quelli che, a prima vista, possono sembrare attività distanti dalla sfera medica, a volte sono in realtà una cura efficace. Infatti, in molti Paesi del mondo stanno diventando parte integrante dei percorsi di guarigione. È il principio alla base del "social prescribing", la pratica con cui i medici consigliano ai pazienti di svolgere attività sociali e ricreative, personalizzate in base alle loro esigenze emotive e psicologiche. Questo approccio, promosso anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dimostrato di avere effetti positivi sul benessere complessivo delle persone, specialmente per chi soffre di solitudine, depressione o patologie croniche.
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La forza della comunità
Il presupposto del social prescribing è semplice: molte delle condizioni di malessere, fisico e mentale, nascono da bisogni sociali non soddisfatti. In Inghilterra, dove questa pratica è ormai ben radicata, i medici di base possono indirizzare i pazienti verso “link worker”, figure professionali che aiutano a costruire un percorso personalizzato tra attività culturali, fisiche o creative, organizzate da associazioni locali.
Queste esperienze migliorano l’autostima, incentivano l’attività fisica e aiutano a costruire relazioni, contribuendo così alla salute senza necessariamente ricorrere subito ai farmaci. E i risultati ci sono: pazienti più motivati, meno ricoveri e un uso più consapevole delle risorse sanitarie.
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Passatempi: terapie che non si comprano in farmacia
L’efficacia del social prescribing non si misura solo in termini clinici, ma anche in termini di qualità della vita. C’è chi, dopo aver smesso di frequentare un corso di ballo, ha cominciato a soffrire di dolori cronici, risolti tornando a danzare. O chi, affiancando un health coach a una terapia farmacologica, è riuscito a migliorare la propria salute al punto da non aver più bisogno dei farmaci.
Certo, la pratica funziona meglio in contesti con un sistema sanitario pubblico e integrato, ma anche in Italia stanno nascendo esperienze simili, spesso legate alle case di comunità. Non si tratta di sostituire le terapie tradizionali, ma di affiancarle con attività che abbiano un significato profondo per la persona. Perché a volte, per stare meglio, basta ritrovare qualcosa che ci faccia sentire vivi.

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